di Elena Carbutti classe II sez. L
Le fiabe… le conosciamo tutti. Tutti, attraverso la voce della mamma o del papà, le abbiamo ascoltate almeno una volta oppure abbiamo visto i magnifici film Disney a loro dedicate. Ogni bambina ha sorriso davanti al lieto fine e ha sognato di essere lei la principessa. Qualunque bambino, mulinando la spada di plastica e tagliando l’aria, ha immaginato di essere un impavido principe. Le fiabe sono stupende, immortali: ci portano in un mondo dove agli uomini accadono cose meravigliose, dove esiste la magia, dove gli uccellini intonano le loro canzoni spensierati e i topini sanno cucire, dove si può sempre contare, in caso di difficoltà, sulla o sulle fate madrine, dove l’amore è il perno intorno a cui gira il mondo, la forza indissolubile e indispensabile che trionfa perfino sulla morte, dove la parola “fine” è sempre accompagnata da “lieto”. Le fiabe sono idilliache, perfette, semplici, ma, al tempo stesso, capaci di stregarti, di darti un’immagine del Bene e del Male, di impartirti ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Tuttavia, le fiabe che noi conosciamo sono delle “semplificazioni” di quelle originali. Tutte le fiabe, infatti, sono molto più macabre rispetto a ciò che ci è stato trasmesso. La Sirenetta, Cenerentola, Biancaneve e i Sette Nani, La Bella Addormentata Nel Bosco … sono più ingarbugliate di quanto si possa immaginare. Nella Sirenetta, di Hans Christian Handersen, per esempio, Ariel, in cambio, non solo della voce, ma di tutta la lingua, chiede alla strega del mare di rimanere umana per un anno (non per tre giorni) e di avere, quindi, le gambe (attraverso una trasformazione molto dolorosa, perché era come se la coda venisse squarciata con un coltello); tuttavia, ogni volta che poggerà queste per terra, sarà come se fossero trapassate da mille coltelli. Inoltre, il principe, svegliandosi, dopo la tempesta, accanto ad un’altra ragazza, penserà che questa sia la sua salvatrice e la sposerà. Per la sirenetta, rimarrà, perciò, solo una possibilità di salvezza: deve uccidere il principe con il pugnale, comprato dalle sorelle, in cambio dei loro capelli, e bagnarsi i piedi con il sangue di quest’ultimo. Ariel, tuttavia, non riesce a fare ciò e si getta giù da un precipizio sul mare, per diventare schiuma; viene, però, salvata dagli spiriti del mare, cui entra a far parte. Oppure, Cenerentola, di Charles Perrault, in cui la protagonista decide lei stessa di non andare a palazzo, temendo di essere schernita per il suo aspetto e la condizione sociale; tuttavia, dopo essersi finalmente decisa a prendervi parte, vi parteciperà due volte; inoltre, le sorellastre la scherniranno soltanto a parole, non le strapperanno il vestito, e né loro né la matrigna scopriranno che è lei la ragazza misteriosa. Invece, nella Cenerentola, dei fratelli Grimm, le sorellastre cercheranno di ingannare il principe, tagliandosi, sotto consiglio della madre, una l’alluce e l’altra il tallone; riusciranno così a calzare la scarpetta, ma, mentre andranno a palazzo, le colombe, amiche di Cenerentola, le smaschereranno e, sotto ordine della protagonista, caveranno loro gli occhi. Un altro esempio può essere quello di Biancaneve e i sette nani, dei fratelli Grimm, in cui la protagonista viene costretta alla fuga dalla matrigna, la quale chiede al cacciatore di uccidere Biancaneve e di portarle i polmoni e il fegato di questa, affinché potesse mangiarli. Inoltre, quando il principe vede Biancaneve nella bara di vetro se ne innamora e, con il permesso dei nani, la vuole portare con lui, tuttavia, durante lo spostamento, uno dei servi inciampa e il pezzo di mela avvelenata (che la matrigna, travestita, aveva dato alla figliastra con un tranello: avevano diviso la mela in due metà e la matrigna aveva mangiato la metà non avvelenata, convincendo così la protagonista), rimasto in gola a Biancaneve, viene sputato da quest’ultima, provocandone il rinvenimento. Secondo altre versioni, invece, una volta a palazzo, i servi, stanchi di portare ovunque la pesante bara di vetro, apriranno quest’ultima e prenderanno il cadavere, per poi scuoterlo, provocando l’uscita del pezzo di mela. In ogni caso, vi è il lieto fine e la punizione della matrigna, che, presentandosi al matrimonio del principe senza conoscere l’identità della sposa, viene costretta ad indossare pesanti ed incandescenti scarpe di ferro, con cui deve ballare fino a tramortire, ormai senza vita, a terra. Tuttavia, secondo me, la favola migliore, sia dal punto di vista della trama, sia da quello dei significati allegorici, cui l’originale è ancora più bella della sua trasposizione, è La Bella Addormentata Nel Bosco, anch’essa di Charles Perrault. Qui, infatti, si trattano i complicati temi del tradimento, del dolore, del cambiamento da esso provocato, della doppia identità, di una forma d’amore più potente dell’amore stesso: l’amore materno; e, addirittura si mette in discussione l’esistenza del vero amore. Per conoscere questa storia nella sua interezza, è necessario andare indietro nel tempo, ritornare a molti o pochi (non è specificato) anni prima la nascita di Aurora, agli anni in cui suo padre, Stefano, è un giovano contadino, che, un giorno, entra nella brughiera per rubare una gemma e qui incontra una bellissima, giovane buona fata dalle grandi ali, Malefica. I due si innamorano, suggellando il loro amore con un bacio, in occasione del sedicesimo compleanno della fata. Tuttavia, poi, Stefano sparisce e si mette al servizio di re Enrico, sui cui ordini si riavvicinerà a Malefica per addormentarla e tagliarle le ali, in cambio delle quali, il re gli concederà il trono e la mano di sua figlia, la principessa Leila. Malefica, per il dolore, la delusione e la rabbia per la perdita dell’amato, si trasformerà nella strega malvagia da noi conosciuta. Dopo qualche tempo, i due regnanti avranno una bambina, Aurora, il cui destino tutti conosciamo. Non sappiamo, però, che Malefica, in segreto, farà da madre ad Aurora, rimedierà a tutti i guai provocati dalle goffe fate madrine e cercherà in ogni modo di spezzare la maledizione da lei stessa scagliata, senza però successo. Allora, farà andare Filippo, un giovane principe conosciuto da Aurora, al capezzale di quest’ultima. Il suo bacio, però, non essendo di vero amore, non risveglia Aurora e Malefica, straziata dal dolore, le chiede perdono e le dà un bacio sulla fronte, che la risveglierà, dato che è vero amore materno. Tuttavia, Stefano vuole uccidere la strega e le si avventa contro, cadendo, insieme a lei, dalla torre; la fata, però, riavute da Aurora le sue ali, si salverà, al contrario del vecchio sovrano. Malefica incoronerà, infine, la figlioccia, come regina della Brughiera. Questa storia, se pur magnifica, è complicata, intricata, difficile da raccontare ad un bambino. Per tale motivo, queste bellissime fiabe sono state, nelle trasposizioni in film, semplificate: si è cercato di valorizzare la purezza e la bontà delle principesse, il coraggio dei principi, l’importanza del vero amore e l’onnipresente lieto fine, si è cercato di rafforzare il ruolo dei “cattivi”, anche quando questi erano neutri. Si è, però, glissato sull’essere umani dei protagonisti, sullo sbagliare, si è data un’idea di perfezione inesistente, purtroppo. Tuttavia, le fiabe sono questo, sono fantasia… sono storie che meritano pienamente di essere raccontate.