di DAVIDE MAGLIONE – Nell’ambito delle attività che ho svolto con la mia classe per il percorso proposto dal centro Astalli ho collaborato con un gruppo di compagni (Multicolor voices) svolgendo un approfondimento che aprisse una “finestra” sul tema delle “ Guerre e Persecuzioni”, e che ci facesse “indossare i panni dei rifugiati”, per dare così un senso a tutte quelle notizie che ascoltiamo quotidianamente e che, spesso, non comprendiamo fino in fondo poiché non conosciamo bene le situazioni.
Il motivo che ci ha spinti ad impegnarci in questo lavoro è stato proprio quello di sostenere la nostra posizione di cittadini del mondo, comprendendo e conoscendo la sofferenza dei nostri coetanei che vivono in altre aree geografiche, approfondendo certe situazioni presenti anche nella nostra Italia.
Così ho coinvolto Ebou, un ragazzo di 21 anni di origine Libica rifugiato in Italia dal 2017 .
Già da qualche tempo lo vedevo nel mio paese ed io e i miei amici l’abbiamo integrato nel nostro gruppo. Una volta iniziato il progetto di studio promosso dal centro Astalli, mi sono incuriosito ancora di più alla sua situazione, fino al punto di farmi spiegare qual era l’aria che si respirava durante la guerra: Ebou era costretto a stare tutto il giorno con un ak47, senza perdere la concentrazione, senza mangiare e senza riposarsi, ma il suo dolore maggiore, oggi, è quello di aver lasciato la sua famiglia senza aver potuto fare niente. Attraverso i suoi ricordi e le sue stentate parole nella nostra lingua, mi ha fatto conoscere la situazione Libica conseguente alla guerra civile che lo ha costretto a scappare.
Ebou per il nostro percorso verso la conoscenza e la condivisione è stato come il cardine di una porta, ovvero, il nostro punto di riferimento per l’ organizzazione del lavoro di approfondimento.
Abbiamo pensato di intervistarlo e di registrarlo, in realtà avremmo voluto filmarlo ma il percorso per ottenere il consenso, per motivi legati al rispetto della privacy, non è stato semplice perciò abbiamo effettuato una registrazione audio, che abbiamo condiviso con tutta la classe.
Eseguire l’intervista, svolta per poter portare una testimonianza diretta, non è stato facile, abbiamo dovuto ottenere il consenso anche per questo, ma con adeguate procedure siamo riusciti ad effettuare la registrazione audio.
Sembrerà strano, ma non è stato facile neanche spiegare il nostro lavoro a Ebou e fargli capire perché volessimo questa sua testimonianza. Tanta era la sua sorpresa e, quando gli ho spiegato i nostri motivi, egli mi ha detto : “Davvero, fra?” perché gli sembrava uno scherzo e quasi impossibile essere il protagonista di un progetto del genere e rilevare l’interesse di un gruppo di ragazzi quasi coetanei a cui riportare cosa ha vissuto sulla sua pelle. Inoltre gli è sembrato strano il mio insistente interesse, in quanto prima d’allora non l’avevo mai fatto. Tutto questo alla fine si è trasformato in gioia ed ha rinsaldato la nostra amicizia.
La registrazione, pertanto, è stato sol l’ultimo step di una relazione che si è stabilita tra Ebou, me e i compagni del mio gruppo di studio. Inizialmente abbiamo provato sensazioni di timore, perché quando di fronte ai tuoi occhi hai un ragazzo che ti racconta cosa davvero succedeva, noti la differenza da quello che sentiamo durante l’ora di pranzo o cena dalle notizie del telegiornale con le nostre famiglie, quando nello stesso tempo loro sono tra la vita e la morte e senza la propria famiglia. Ho osservato attentamente dentro di me le altre sensazioni che ho provato e sono state generate da quei piccoli gesti quotidiani nelle ore che ho trascorso insieme a Ebou, in cui mi sono sentito vicino alla sua sofferenza e ho rinsaldato in me quella consapevolezza di cittadinanza, che ci porta ad essere vicini anche a chi ci sembra così lontano.