di Irene De Rinaldis e Sofia Rizzo
L’ora era arrivata. Non sapevo dove stessimo andando, ci hanno solo detto di preparare la valigia.
Non sapevamo cosa portare con noi in questo viaggio, forse una bambola, un violino o la collana della bis nonna.
Avrei potuto portare una fotografia su cui eravamo raffigurati io, mamma, papà e mia sorella maggiore.
Davanti casa arrivò un camion, ci fecero salire e ci portarono alla stazione.
Lì ci aspettava un treno gigante che ci faceva pensare alle tenebre. La mamma tremava, ma cercava di dimostrarsi serena ai nostri occhi.
Un signore con il berretto e la camicia color verde militare ci fece salire, per meglio dire ci strattonò dentro. All’interno migliaia di persone: anziani, bambini senza genitori. Tutti con bagagli.
Li tenevano stretti al petto per non perderli, erano gli unici ricordi che possedevano.
Quando vennero chiuse le porte calarono le tenebre.
Forse è stato il viaggio più lungo della mia vita o forse sapevo che sarebbe stato l’ultimo. Dalle facce degli altri ragazzi, avevo la sensazione che non avrei fatto più ritorno.
Rimasi stretta a papà, pur sapendo che a distanza di qualche giorno non avrei rivisto neanche mia madre.
Sentii un fischio e poi solo il rumore delle rotaie.
Arrivati a destinazione, il cuore mi batteva all’impazzata. Non sapevo di preciso cosa mi sarebbe accaduto, anzi forse lo immaginavo!
Ci portarono in delle stanze sporche, fredde e buie; ci fecero indossare delle divise maleodoranti.
In quel momento, dispersa tra la folla di gente che si svestiva, stringevo forte a me quella foto che in qualche modo mi rincuorava. Lo feci fin che una guardia non me la portò via e con lei persi la speranza e la forza di resistere a tutta quella cattiveria.
Ogni settimana che passava eravamo sempre meno, ero cosciente del fatto che prima o poi sarei venuta a mancare anche io. In quel posto le condizioni igieniche erano veramente pessime.
A ogni pasto zuppa e pane. Mi rifiutavo di mangiare, perché ogni volta che qualcuno dava un sorso a quella strana zuppa, si sentiva male.
Andammo avanti così per mesi, fino a quando non arrivò la notizia.
Sentivo dentro di me tanta energia che mi spingeva a trotterellare lungo tutta la stanza in cui eravamo chiusi. Purtroppo non fummo in molti a salvarci, forse un centinaio.
Appena usciti scappammo il più lontano possibile e non mi parve vero ciò che vidi. Finalmente, dopo tanti mesi, ero con la mia famiglia.