D’Uggento Antonia G. Mentre il coronavirus valica i confini degli Stati e dei Continenti facendoci by-by, lungo il fiume Evros, il confine con la Turchia, dove migliaia di disperati fanno pressione per entrare in Europa, è pattugliato da polizia ed esercito ellenici.
L’ondata di profughi che Erdogan minaccia di lasciar andare nel vecchio continente è, come da anni ormai, prodotta dal conflitto siriano e dalla strategia di chi intende risolvere a proprio vantaggio una crisi politica strumentalizzandone una umanitaria. Sta di fatto che nelle isole greche (la rotta lungo il fiume non è l’unica né la più facile) e nel mare che le lambisce sta davvero accadendo di tutto. I numerosi reportage da Lesbo
raccontano episodi che vanno persino oltre ciò cui la comunità internazionale ha già assistito : spari della guardia costiera sui naufraghi, lacrimogeni, abitanti dell’isola che respingono i gommoni, persone alle quali si impedisce persino di utilizzare le panchine per cercare un po’ di riposo, bambini nelle immondizie. E lacrime di mamme. Tante lacrime. E urla . Tante. Il campo di Moria è stracolmo. Si parla di trentamila persone a fronte di una capienza di tremilacinquecento. Come se non bastasse si stanno altresì verificando episodi di intolleranza e razzismo da parte di gruppi neonazisti come quelli che a Chios hanno appiccato il fuoco al deposito di una ONG che gestisce il campo di Vial. Qualche giorno fa un bimbo, un altro Ayal ( quello che commosse il mondo) è morto. Ma pochi se ne sono accorti. Che succede ? Cosa ci succede?
Siamo distratti. E questa volta lo siamo ragionevolmente. L’epidemia in atto sta facendo saltare i nostri progetti, le abitudini quotidiane, i rapporti sociali, in una parola le nostre certezze. Ci accorgiamo all’improvviso che siamo in balia degli eventi, che non possiamo più dire quando parteciperemo a un concerto , torneremo a scuola, abbracceremo i nostri amici, stringeremo mani. Il senso di onnipotenza di una società che rimuove la morte e la vecchiaia vacilla lasciandoci fragili e indifesi di fronte a un nemico che non avevamo neppure immaginato. Eh si che ne avevamo creati tanti : lo straniero, il povero, il diverso di ogni tipo su cui riversare rabbia e pregresse frustrazioni. Abbiamo anche tentato di costruire un nemico su misura e il cinese che “mangia i topi vivi” calzava a pennello ma quando l’untore è diventato italico abbiamo rischiato di sgretolare la tanto decantata unità nazionale (e l’annessa propaganda politica). Forse è il caso di rivedere categorie e priorità. Forse è il caso di ripensare al concetto di sicurezza perché ritorni ad assumere la sua accezione originaria di sicurezza sociale (dal bisogno, dalla malattia, dal disagio). Se la smettessimo di cercare nemici e finalmente comprendessimo ciò che agli altri ci lega, i sentimenti ad esempio che sono universali, come lo è la paura che ci appartiene in quanto esseri umani, forse potremmo dire che proprio la paura può salvarci. Ecco perché ciò che accade a Lesbo ci riguarda. Ora forse è più facile comprendere, ad esempio, lo sconforto di una mamma profuga che abbraccia una bimba bruciante di febbre. Ora possiamo comprendere. Ora noi europei, autori della cultura dei diritti umani, possiamo riprenderci l’identità che ci distingue garantendo, oltre ai nostri, i diritti di tutti gli altri esseri umani A patto di non chiuderci in una quarantena emotiva che non ci salva. A patto di restare o ritornare a essere…UMANI .