Maria Carolina Ceci, Gaia Liguori, Francesca Reitano, Maria Grazia La Pietra
Colloqui fiorentini Eppure resta che qualcosa è accaduto, forse un niente che è tutto Xenia II, 13LA SCOMPOSIZIONE DELLA LUCE
Guardandoci attorno i colori che ci circondano sono la prima cosa che notiamo, il mezzo migliore per esternare il nostro mondo interiore.
“ I colori, come i lineamenti, seguono i cambiamenti delle emozioni” (Picasso)
Ogni colore, anche convenzionalmente rappresenta uno stato d’animo dell’essere.
Montale è un poeta che ama “pennellare” i suoi stati d’animo, restituendoceli in immagini chiare e vive. Utilizza questa proprietà dei colori per riflettere se stesso sulla realtà che lo circonda. In molte delle sue poesie, infatti, in base ai colori che adopera, crea un’atmosfera ben precisa nonostante la potenziale soggettività delle emozioni scaturite dalle sfumature. Con i colori Montale ha la possibilità di rappresentare ogni sfaccettatura del proprio animo, ogni attimo della sua esistenza, e al contempo fare un discorso di valenza universale.
Goethe nella sua “teoria dei colori” afferma che il colore si origina dall’incontro della luce con le tenebre, ed è proprio questa l’immagine che Montale fa trasparire dalle sue poesie. Inizialmente l’io poetico è sommerso dalla noia della monotonia e vive giorno per giorno aspettando quell’epifania che gli faccia avere una visione colorata delle cose, quell’occasione che faccia scomparire tutta la tetraggine che lo assale. E’ proprio il quid l’emblema di tutta la poesia montaliana, quel qualcosa di inaspettato che arriva e su uno sfondo nero fa risaltare il colore, proprio quando il mal di vivere incombe. E’ importante comprendere il passaggio tenebre-luce che avviene in tutte le poesie di Montale; il poeta vive un momento cupo e tenebroso che lo porta a vedere le cose con oscurità, ma l’occasione sta proprio nell’incominciare a schiarirsi dell’ombra e così, pian piano, tutto ciò che gli è attorno, e che prima era oscurato da quel grigiore che gli offuscava l’animo, si dissolve in un fiume di colori.
Dunque Montale, proprio come un prisma, scompone la luce bianca che vede come certezza in un fascio di colori che traduce in poesia.
LE TENEBRE
Spesso il male di vivere ho incontrato
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
[Eugenio Montale, Ossi di Seppia, 1924]
Qui ci troviamo di fronte ad una delle poesie più contraddittorie di Montale, il quale, con questi pochi ma forti versi, intende comunicarci la sua visione del “male di vivere”, il dolore che ha incontrato in ogni passo, in ogni elemento della natura. Tutto ruota intorno ad un evidente parallelismo fra le due quartine, nella prima possiamo scorgere delle parole trapelanti amarezza, malinconia, che si materializzano nella foglia accartocciata su se stessa, nel ruscello ostacolato, nel cavallo stanco e cascante. Il poeta cerca di rappresentare nel miglior modo possibile il suo stato d’animo, ponendo al centro di tutto parti animate ed inanimate della natura che suscitano delle tenebrose emozioni, che si tramutano in un lieve albore di aspettativa esclusivamente nella seguente ed ultima quartina. Montale prevede di comunicare al lettore che un barlume di speranza, nel riuscire ad oltrepassare l’oscurità per arrivare alla tanto attesa luce, c’è sempre. Egli lo concretizza attraverso la vista di un falco che vola libero nell’abbagliante e infinito cielo, in una statua perfetta nella sua staticità, nelle ore sonnolenti di un caldo pomeriggio estivo, ed infine nella candida nuvola bianca immersa perfettamente nell’azzurro.
Montale rende possibile tutto ciò grazie ad un’unica e sola parola, ovvero la chiave dell’intera poesia: l’indifferenza, che definisce “Divina” quasi come se fosse l’irripetibile occasione di riscattarsi al dolore fino ad ora provato, indossandolo con impassibilità e superiore distacco.
Cigola la carrucola
Cigola la carrucola del pozzo, l’acqua sale alla luce e vi si fonde. Trema un ricordo nel ricolmo secchio, nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri: si deforma il passato, si fa vecchio, appartiene ad un altro… Ah che già stride la ruota,ti ridona all’atro fondo, visione, una distanza ci divide.
[Eugenio Montale, Ossi di Seppia, 1925]
E’ sorprendente l’introduzione onomatopeica che Montale ci fornisce di questa poesia. La prima immagine che ci appare è quella di una carrucola arrugginita, che portando l’acqua in superficie emette questo suono che introduce un’esperienza. Montale in tutte le poesie non ha l’intento di descrivere la realtà, infatti anche in questo caso la materialità delle cose allude a qualcos’alto. Salendo in superficie l’acqua all’interno del secchio si fonde con la luce del sole; questi due elementi, acqua e sole, fondendosi simboleggiano la vita, quindi il poeta con l’arrivare a superficie del secchio vuole alludere all’OCCASIONE che è il punto chiave di tutte le sue poesie. Ed ecco che nello specchio di questo secchio ricolmo d’acqua appare un’immagine, quella di una donna. Anche questo avvenimento può essere interpretato come un’occasione, poiché rispecchiandosi nell’acqua del secchio, egli non rivede la sua immagine ma vede quella donna, quel tu, quello strumento che gli permette di conoscere la sua vera identità : la donna non è nient’altro che lo specchio dell’anima dell’uomo. Riconosciuto il riflesso della sua donna, accosta il volto, ma il riflesso scompare. Questo è uno degli aspetti più importanti della donna montaliana: l’occasione che arriva quando assale la tetraggine, ma di colpo scompare impedendo all’io poetico di avere con essa un rapporto diretto. La carrucola cigola di nuovo riportando il ricordo, ed ecco comparire un altro elemento essenziale della poesia montaliana: il viaggio, che non è inteso come spostamento, ma viaggio come metafora della conoscenza, il viaggio per incontrare, per cercare quella presenza, quell’occasione, svanita sotto i nostri occhi.
L’INCONTRO
Meriggiare pallido e assorto
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Il poeta si trova ad osservare il primo pomeriggio estivo e tutto appare fermo, morto. Osserva file di formiche rosse, ascolta il suono delle cicale che si mischia con il rumore delle onde in lontananza e vive questi elementi con profonda inquietudine, poiché sembrano tutti elementi fermi, abbagliati dal sole a picco, e in fin dei conti privi di senso. Ma non possiamo fermare la nostra immaginazione nel leggere questi versi, un’esplosione di colori contrastanti balena nella nostra testa, suscitando emozioni altrettanto contrastanti. Significativa però in questa poesia è l’immagine di un muro che ha avuto lo scopo di coinvolgerci pienamente nello spirito di Montale.
Anche a distanza di circa un secolo dalla composizione della poesia sopra citata, nonostante i progressi scientifici e tecnologici, l’uomo è, se preso nella sua pienezza, sempre lo stesso, con speranze, illusioni, rimpianti, sconfitte ed in costante ricerca di un senso o di un “varco” verso un «più là» (s’è rifatta la calma) che lo appaghi pienamente. Noi adolescenti, in modo particolare, sperimentiamo, forse per la prima volta, la «muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia» e «il male di vivere», ma sono momenti passeggeri e vale in noi l’attaccamento alla vita terrena e la voglia di viverla nella sua pienezza, pronte, quindi, per il nostro viaggio, consapevoli delle incertezze e dei rischi che esso stesso comporta. Così non ci siamo più sentite tanto lontane psicologicamente dal poeta, perché lo stesso Montale afferma che «l’argomento della mia poesia è la condizione umana in sé considerata, non questo e quell’avvenimento. Ciò non vuol dire estraniarsi da quanto avviene nel mondo, significa solo coscienza e volontà di non scambiare l’essenziale con transitorio». Anche se la realtà a volte appare assurda ed il pessimismo sembra prevalere ci piace ricordare quanto detto dal poeta in un’intervista radiofonica del 1955: «Credo che in sostanza tutte le (mie) poesie costituiscano l’autobiografia, il giornale intimo di un uomo che considera la vita come assurda. Non dico inutile, ma assurda. Il poeta nega e negando afferma qualche cosa. E che cosa afferma il poeta non si sa. Certamente afferma la consapevolezza che la vita vale la pena di essere vissuta, che la pagina vale la pena di essere scritta, e non credo che oltre questo ottimismo potenziale, io possa per il momento andare»
PORTAMI IL GIRASOLE
Portami il girasole ch’io lo trapianti nel mio terreno bruciato dal salino, e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti del cielo l’ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure, si esauriscono i corpi in un fluire di tinte: queste in musiche. Svanire è dunque la ventura delle venture.
Portami tu la pianta che conduce dove sorgono bionde trasparenze e vapora la vita quale essenza; portami il girasole impazzito di luce.
[Eugenio Montale, Ossi di seppia, 1925]
Nella prima strofa della poesia Montale rappresenta il girasole, fiore maestoso dai petali gialli, quasi in maniera antropomorfa, con il “volto giallino”. Concretizza lo spazio e il tempo in poesia, i colori del cielo e del fiore, che rappresenta salvezza, fanno trapelare con grazia la luce di cui, a fine poesia, “impazzirà” il girasole. La prima quartina è come una preghiera, un’invocazione, una richiesta, quella di ricevere, non un girasole, ma il girasole, che nel fluire delle parole rappresenta quasi qualcosa di mistico ed etereo, proteso verso un cielo azzurro, bramoso di luce. Montale dalla seconda strofa va creando un equilibrio, tra quella luce che necessita e l’oscurità del suo mondo interiore, riconosce la chiarità a cui esso tende e va espandendo le proprie sensazioni, facendo sopraggiungere una melodiosa armonia che va sfumando dal corporeo in uno “svanire” come sorte assoluta. Successivamente il girasole da fine assoluto diventa il mezzo per riconoscere e saper filtrare l’essenza della vita, quale alternarsi di luce e ombra, o coesistenza e vivido conflitto delle due. Montale crea un’aura attorno alla poesia luminosa e solare, inserendovi le proprie paure.
La poesia montaliana si compone di timori, i versi sono lo specchio delle bramosie e dei freni che il poeta si pone una volta presa coscienza dell’amara realtà. Nella poesia inserisce il proprio profondo desiderio di fusione con una natura, superiore al dramma solitario dell’io, simbolo di un “rifiorire”. Con “tendono alla chiarità le cose oscure” Montale lascia trasparire il principio di una vivida speranza in quell’oscurità che lo attanaglia da una vita; egli si arrende a quella chiarità e la desidera, come una scintilla che in lui appiccherebbe un fuoco di vita. Vivere nell’assoluta oscurità renderebbe ignifuga la sua esistenza, quel fuoco non si accenderebbe mai: di ciò ne ha piena coscienza e si protende verso la luce, tenta di raggiungerla attraverso un’oscurità, non nemica ma compagna.
LA LUCE
Non rifugiarti nell’ombra
Non rifugiarti nell’ombra di quel folto di verzura come il falchetto che strapiomba fulmineo nella caldura.
E’ ora di lasciare il canneto stento che pare s’addorma e di guardare le forme della vita che si sgretola.
Ci muoviamo in un pulviscolo madreperlaceo che vibra, in un barbaglio che invischia gli occhi e un poco ci sfibra.
Pure, lo senti, nel gioco d’aride onde che impigra in quest’ora di disagio non buttiamo già in un gorgo senza fondo le nostre vite randage.
Come quella chiostra di rupi che sembra sfilaccicarsi in ragnatele di nubi; tali i nostri animi arsi
in cui l’illusione brucia un fuoco pieno di cenere si perdono nel sereno di una certezza: la luce.
[Eugenio Montale, Ossi di Seppia; 1925]
Nella poesia Montale descrive un paesaggio chiaramente estivo; è immerso nel caldo di uno dei tanti ed ispiranti pomeriggi afosi che vive e che gli suscitano delle emozioni, circondato da un pulviscolo, che quasi gli limita la vista. Proietta nelle sue parole questo spazio arido, ma vede di più. La poesia è un’esortazione molto decisa che fa all’uomo, ma in primis a se stesso, per non permettergli di sprecare la propria vita. L’umanità intera, attanagliata dai dolori di una realtà sfacciatamente crudele, persa nelle illusioni, ha fatto dell’ombra il suo posto sicuro, è un luogo angusto nel quale non è facile vivervi, ma l’abitudine e la paura l’hanno incatenata. Ma non è convincendo il lettore e se stesso del fatto che la vita sia qualcosa di migliore che vuole portarlo via dall’ombra, egli rimane tetro nella sua concezione della realtà, riconosce che è una realtà che va sgretolandosi, sa che ormai le nostre non sono altro che “vite randage”, ma non è tutto, sottolinea che nonostante le quotidiane amarezze c’è qualcosa di bello, lì fuori da qualche parte, e vale la pena di essere trovato e vissuto fino all’ultimo. Oltre l’oscurità c’è qualcosa degno di essere vissuto anche da chi sembra aver perso ogni speranza, qualcosa che merita di essere visto persino da occhi che ormai non brillano più, perché sarà proprio quello a donare la luce a chi avrà la voglia di abbandonare l’ombra. La vita randagia di Montale e di noi tutti è fatta di castelli in aria e di sensazioni incompiute, ma c’è una certezza per la quale vale la pena di rischiare di cadere: la luce.
I limoni
Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi dove in pozzanghere mezzo seccate agguantano i ragazzi qualche sparuta anguilla: le viuzze che seguono i ciglioni, discendono tra i ciuffi delle canne e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli si spengono inghiottite dall’azzurro: più chiaro si ascolta il susurro dei rami amici nell’aria che quasi non si muove, e i sensi di quest’odore che non sa staccarsi da terra e piove in petto una dolcezza inquieta. Qui delle divertite passioni per miracolo tace la guerra, qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza ed è l’odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose s’abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto,talora ci si aspetta di scoprire uno sbaglio di Natura, il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità. Lo sguardo fruga d’intorno, la mente indaga accorda disunisce nel profumo che dilaga quando il giorno più languisce. Sono i silenzi in cui si vede in ogni ombra umana che si allontana qualche disturbata Divinità.
Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta il tedio dell’inverno sulle case, la luce si fa avara – amara l’anima. Quando un giorno da un malchiuso portone tra gli alberi di una corte ci si mostrano i gialli dei limoni; e il gelo del cuore si sfa, e in petto ci scrosciano le loro canzoni le trombe d’oro della solarità.
[Eugenio Montale, Ossi di Seppia; 1925]
Montale attraverso questi versi presenta attimi di una felicità sfuggente e sempre in bilico, facendo uso di parole che distruggono la convenzionalità del mondo. Le piante dai nomi poco usati sono il correlato oggettivo di questa poesia , il perno su cui Montale si concentra maggiormente per esprimere al meglio la sua esigua e semplice personalità, che tanto si differenzia dagli altri autori. Il poeta preferisce descrivere il paesaggio della sua amata Liguria così come si presenta, creando l’immagine di strade circondate dall’erba dove giacciono le pozzanghere. Nelle prime due strofe, quindi, lo scenario è essenziale, aspro e schietto, in egual modo lo è anche il linguaggio poetico, con espressioni quasi più vicine alla prosa che alla poesia come “le viuzze che seguono i ciglioni discendono tra le canne , e mettono negli orti tra gli alberi dei limoni” il cui profumo inebria i passanti che si concedono un attimo di ricchezza. Successivamente, la Natura viene personificata, e non è più descritta attraverso parole che suscitano materialità, bensì diviene quasi astratta e incantata. Ed è proprio nei momenti in cui anche il cinguettio degli uccelli si disperde nell’azzurro lucente del cielo, che, contornato dal silenzio, l’uomo sembra penetrare nel mistero della vita, ma è solo un’illusione che viene a mancare e ci riporta indietro, all’inaccettabile realtà cinerea e opaca delle città, alla terra torturata dalla pioggia smaniosa di rendere malinconico il paesaggio, ai tetti delle case sovrastati dall’inverno, dal colore plumbeo della nebbia ligure. Ma proprio in quell’istante che, passeggiando fra le tristi strade, da un portone, lasciato aperto come simbolo di speranza per colui che nulla ha in più da osservare, si intravede il giallo abbagliante dei limoni che, con tutta la sua fierezza, si fa avanti con impellente maestosità. Esso accende una luce che dissolve il gelo del cuore ed evoca un insieme di profumi piacevoli che per un istante si conciliano con la vita.
Il percorso poetico di Montale appare complesso, una continua ricerca dell’irraggiungibile traguardo , al limite dell’esperienza umana costellata da rischi che bisogna affrontare, poichè il più grande errore è quello di attendere.
“Quando gli occhi si abituano alle tenebre ed in esse si riesce a scorgere il giorno che vi si nasconde, quando nel buio della notte si vede la luce del mattino, si è diventati artisti della vita.”
Così Montale non si dimostra solo un poeta ma un vero e proprio artista della vita, spronandoci a superare quel varco che va oltre anche le sue stesse vedute.
La speranza che traspare tra i versi del poeta rappresenta il vero e proprio varco che egli cerca di raggiungere: l’obiettivo finale è quello di arrivare alla luce, presentata come certezza, cosa possibile solo attraverso il buio. Nonostante ciò, Montale si arrende ai suoi stati d’animo, anche quando sembrano risultare troppo tetri per continuare il suo viaggio di ricerca, e li traduce in arte. Il suo è un processo di trascrizione di ciò che ha dentro su ciò che ha attorno.
Il poeta non è mai proteso verso gli assoluti, sta sempre nel mezzo e non estremizza i propri sentimenti, è l’uomo della possibilità, quella che accada un miracolo che allevi la sofferenza della ricerca della luce. Con Montale, si ha una visione molto più ampia della realtà, abbracciando ogni sfaccettatura della sua poesia, imparando a considerare tutti i lati della vita non vedendo più le cose o solo in bianco o solo in nero, ma a colori.