Delia Rivetti V D – Un tocco. Una leggera pressione di polpastrelli che sfioravano quell’affascinante superficie. Tasti che cedevano sotto le sue mani. Dita che ondeggiavano pigramente, come in balia di una leggera brezza. Sudore che scendeva lentamente lungo il suo collo, in affascinanti gocce argentee. I capelli che sfioravano giocosamente le sue spalle scoperte, mentre il pubblico ammutoliva, assorto da quell’ipnotica melodia. Mentre i martelletti colpivano delicatamente le corde, loro dame, invitandole a danzare, queste sorridevano felici, ondeggiando come alghe nella corrente. Bemolli accompagnavano delicati accordi che si susseguivano armoniosamente per tutta la battuta, che scorreva lentamente, come un fiume nel suo letto centenario che portava via le note, immerse nelle sue placide acque. Poi ecco, la sua mano che si sollevava prontamente e che affondava in quel mare policromatico, che si tuffava in quei tasti d’avorio e pareva divorarli. Dita che si muovevano come impazzite in quella distesa di bianco e nero che riempiva il suo sguardo. Si sollevavano e si abbassavano, aggraziate, abili, veloci, a volte dolci, a volte aggressive, sfiorando quell’oceano di tasti che soleva invitarle a navigare le sue acque inesplorate. Le mani esperte trovavano ogni nota, colpendola con innata grazia e velocità. E a ogni tocco i martelletti che prima pizzicavano gentilmente ora piombavano aspramente sulle corde, che però continuavano a danzare, ammaliate da melodie a noi sconosciute. Ed esse a ogni colpo vibravano, vibravano e vibravano senza mai fermarsi, imprigionate in un vortice senza fine di suoni e onde. Le note si inseguivano l’una dietro l’altra, come per gioco, a volte tenendosi per mano oppure scontrandosi bruscamente con tremende ma magnifiche dissonanze. Intanto il pedale cedeva arrendevole alla giovane e accompagnava gentilmente le corde nella loro danza. I mordenti accarezzavano delicatamente l’udito, mentre i trilli lo stuzzicavano, bisticciando spesso con le povere note che, con brevi pause, solevano farsi desiderare, proprio come dame di alta classe a un appuntamento. I glissandi invece, come uomini d’affari sempre di fretta, scivolavano veloci sulla tastiera, salutandole frettolosamente e scappando via diretti chissà dove. Gli arpeggi poi, da gran maleducati, passavano di corsa senza degnare di uno sguardo le nostre povere dame, consolate però dai timidi tremuli, che le salutavano insicuri e dolci. E quando le dita parevano non smettere mai di colpire i poveri tasti d’avorio, ecco che arrivavano in tutto il loro splendore le fioriture più varie e stravaganti, che intrattenevano sempre con le loro chiacchiere lunghe e quasi infinite. E in tutto questo lo strumento e lo spartito erano solo i suoi strumenti e stava a lei, con il suo tocco, con le sue emozioni, a dare colore al piano. Ma poi arrivavano i finali ed erano loro a cancellare tutta la magia, però le permettevano di colorare la sua musica. E allora piombavano di punto in bianco e distruggevano tutto, terminando quel momento di serenità e armonia, ma donando anche un piacevole senso di vuoto nella musicista, colmato poi dagli applausi. Ma solo in quel momento, solo dopo il finale, si rendeva conto di essere riuscita nella sua impresa, di essere riuscita a incantare il pubblico e a trasmettere loro i propri sentimenti. E in quel momento, mentre il cuore stava per esploderle, tutto ritornò reale e la giovane si accorse che quella dolce droga che era la musica aveva terminato il suo effetto, costringendola a tornare alla realtà. E quindi scrosci di applausi accompagnavano la sua uscita eppure, nonostante questo, non si sentiva soddisfatta e avrebbe solo voluto tornare a suonare, però questa volta per non smettere più. Questa era stata la sua prima esibizione. Un miscuglio infinito di emozioni che si fondevano in un vortice infinito di sensazioni che la sconvolgevano. Però appena uscita da quella maledetta sala non la avevano accolta applausi, ma solo espressioni disgustate. E da quel giorno diventò schiava della musica. E ora dopo anni si ritrovava lì, su quel palco, davanti a un pubblico silenzioso e inespressivo, che la guardava senza fiatare. Non sentiva niente. Aveva eseguito il brano alla perfezione e avrebbe vinto di nuovo, il resto non contava più nulla. Sentiva la carta degli spartiti incollata alla sua mano, avvinghiata ad essa, come un serpente alla sua preda. In fondo questi erano per lei gli spartiti: creature pericolose pronte ad avvilupparla nelle loro spire fatte di pentagrammi, di note, di chiavi e a divorarla per intero. Di vent’anni vissuti, sedici li aveva passati nelle spire di quei maledetti pezzi di carta, che oramai la imprigionavano in una trappola letale, che aspirava la sua immaginazione giorno dopo giorno. Il suo unico padrone, lo spartito, le ordinava cosa fare, rendendola incapace di esprimere al mondo le proprie emozioni. E infatti il piano non le era mai sembrato più triste e solo e sembrava accusarla, rimproverarla, invitarla a tingere i suoi tasti di emozioni e melodie. E lei avrebbe voluto avvicinarglisi, sedersi e suonare, ascoltarlo. Voleva far scorrere lentamente le dita su quella tastiera bianca e nera e dimenticare tutto. Non ci sarebbe stato alcuno spartito da seguire, sarebbero stati solo lei e il piano, lo scultore e la propria creta. Voleva fare questo, ma, come ogni altra volta, voltò le spalle a quel povero strumento e uscì dalla sala, pronta ad accogliere quei sorrisi finti che ormai la accompagnavano ovunque e che erano sempre lì ad aspettarla dopo ogni maledetto concerto. La mano si avvolse lentamente attorno al gelido pomello della porta, pronta ad aprirla, ma in quel momento la giovane fece ciò che a ogni musicista è vietato fare: guardare indietro. E davanti al suo sguardo c’era il piano che la pregava di avvicinarsi, di sfiorare con le sue dita esperte i suoi tasti, di far collidere i martelletti e le corde in una nuova danza che avrebbe riempito l’aria di incredibili sfumature che sarebbero penetrate come proiettili nei cuori grigi degli spettatori. Però, invece di ritornare sul palco, aprì quella maledetta porta e corse fuori, ignorando le grida di coloro che conosceva, della sua famiglia, dei suoi maestri, di tutto. Uscì in strada e continuò a correre nel gelo di febbraio, avendo come unico compagno il freddo che le toglieva il fiato e le impediva di lasciar andare le lacrime. Quando si fermò era ormai molto lontana dal teatro nel quale si era esibita. Le luci ora le apparivano opache e sfocate, mentre le lacrime le offuscavano la vista e scendevano lentamente lungo i suoi zigomi. Era stanca, incredibilmente stanca, ma non comprendeva il motivo di questa sua stanchezza. Si appoggiò a un muro, pronta a lasciarsi cadere sul freddo marciapiede e aspettando nel gelo che qualcuno la venisse a prendere. Poi ecco, una dolce melodia che riempie il silenzio della notte, danzando con il vento. Note variopinte la avvolsero, quasi ridendo allegramente, abbracciandola, circondandola. E in quel momento si sentì come invasa da una calda brezza, mentre un fiume di lava scorreva lentamente nelle sue vene, riscaldando il suo corpo infreddolito. Si sentì come attratta da quelle note e senza rendersene conto si ritrovò a camminare verso la fonte di quella musica. Scese lentamente le scale della metro, sentendo quel dolce suono avvicinarsi e chiamarla con più forza, spingerla a unirsi ad esso e a danzare. E poi, girando l’angolo, lo vide. Piccole e agili mani, ricoperte di cerotti e anelli, scorrevano abili sulla tastiera d’ebano, premendo quelle candide corde, mentre l’archetto scivolava rapidamente producendo quelle dolci note che si andavano a fondere con il freddo silenzio invernale. E ad ogni oscillazione una miriade di catenine scintillavano tintinnando, accompagnando la musica di quel musicista così singolare. Egli dipingeva l’aria con le sue note, plasmando il suo violino sotto il suo abile tocco. Ogni oscillazione era diversa e faceva nascere una moltitudine di note a volte lunghe e calme, altre volte saltellanti e brevi, mentre altre aspre e strozzate parevano togliere il fiato sia allo strumento che a quel giovane malpelo. La chioma del giovane ondeggiava irrequieta, seguendo i movimenti di quell’esile corpo che accompagnava il violino nella sua magia. I suoi occhi erano chiusi e un sorriso aleggiava sulle sue labbra, mentre il suo braccio si muoveva senza tregua e sempre più rapidamente, fino a trovare, in un ultimo rapido tocco, il finale che cercava. Suonata l’ultima nota rimase immobile, ansimante, mentre accarezzava dolcemente il suo strumento, proprio come un genitore accarezza il proprio figlio. E quando fu inondato di applausi lo strinse forte a sé, quasi come per ringraziarlo, o forse per avere un’ancora in quella tempesta di battiti che cercava di trascinarlo via con sé. A quel punto alzò lo sguardo e guardò il suo pubblico con un accecante sorriso. Poi riappoggiò il violino sulla spalla e, incrociando per un attimo gli occhi della pianista, riprese a suonare con più energia di prima, se possibile. E quando lei incontrò quegli occhi colmi di colori ed emozioni, queste la travolsero, come un torrente in piena. Osservarlo suonare aveva sbloccato in lei qualcosa, non sapeva cosa, ma sentiva solo il bisogno di avvicinarsi al suo piano e suonare fino allo sfinimento, suonare finché non fosse riuscita a colorare con la sua musica il bianco e nero del piano. Non rimase ad ascoltare quel giovane musicista, ma corse via, saltando sul primo treno in partenza, diretta lontano, verso la sua casa, pronta a ricominciare daccapo. Non sapeva se avrebbe rivisto quel giovane, ma sapeva che non avrebbe mai dimenticato quel momento in cui lui, con il suo compagno di avventure, avevano ridipinto la sua vita. E su quel treno, con le guance scarlatte dall’emozione e gli occhi scintillanti dalla meraviglia, la nostra giovane musicista capì il vero senso della musica e decise di abbandonarsi. Perché in fondo, se lo si vuole, la musica può salvare chiunque, anche chi ha perso ogni speranza.