La polizia iraniana ha annunciato di aver cominciato a installare telecamere di sorveglianza in luoghi pubblici per identificare le donne che non indossano l’hijab, il velo islamico solitamente legato intorno alla testa e al collo per nascondere i capelli. Le donne con i capelli scoperti, identificate nelle riprese delle telecamere, la prima volta riceveranno un messaggio per «essere informate sulle eventuali conseguenze legali se il reato verrà reiterato». Secondo la polizia, questo servirebbe a favorire il rispetto dell’obbligo di indossare l’hijab in pubblico, divieto che esiste nel paese dalla rivoluzione islamica del 1979. Ad essere poste sotto il controllo della polizia anche le studentesse iraniane, costrette a indossare l’hijab per andare a scuola, mentre gli episodi di avvelenamento delle alunne del Paese si fanno sempre più preoccupanti e allarmano la comunità internazionale. L’ultimo parla di sessanta nuovi casi nella provincia del Khuzestan, l’ennesimo attacco all’istruzione femminile in un Paese che, come l’Afghanistan, vorrebbe relegare le donne a un mero ruolo casalingo e riproduttivo. Sempre più donne iraniane non vogliono più indossare il velo dallo scorso settembre, ovvero dalla morte della 22enne curda Mahsa Amini, avvenuta dopo il suo arresto da parte della polizia morale che l’accusava di aver indossato l’hijab in modo inappropriato. La polizia ha descritto il velo come “uno dei fondamenti della civiltà della nazione iraniana” e ha esortato i proprietari di ristoranti e negozi a rispettare le regole attraverso “ispezioni diligenti”. Il capo della magistratura iraniana, Gholamhossein Mohseni-Ejei, tuttavia, ha avvertito che una diffusa repressione potrebbe non essere il modo migliore per incoraggiare le donne a seguire le regole. Inoltre, ha affermato che “i problemi culturali devono essere risolti con mezzi culturali. Se vogliamo risolvere tali problemi, arrestando e imprigionando, i costi aumenteranno e non vedremo l’efficacia desiderata”.